giovedì 25 giugno 2009

"Aida 1913, tutto il fascino del melodramma "puro"" (dal quotidiano L' ARENA)


"Aida 1913. Ormai è giusto chiamarla così, con la data incorporata per sottolineare il blasone di uno spettacolo dalla storia quasi secolare. A pensarci bene è un caso unico al mondo: quasi un terzo delle rappresentazioni dell'opera egizia di Verdi in Arena sono in base alla ricostruzione della mitica inaugurazione dell'agosto 1913. L'hanno vista circa due milioni di persone.
Aida 1913 è uno spettacolo che viene da lontano e che vede vicino il traguardo (uno dei suoi traguardi), che è naturalmente il centenario tondo, in scadenza fra quattro anni. Difficile immaginare le celebrazioni senza di lei, anche se tutti giustamente aspettano anche lo spettacolo nuovissimo, che faccia epoca per il nuovo secolo in un ideale passaggio del testimone.
È uno spettacolo all'antica: la celeberrima invenzione scenografica di Ettore Fagiuoli è ormai un caso di scuola nella storia delle rappresentazione operistiche, non solo all'aperto, con il suo gusto "art-déco" che oggi, corsi e ricorsi estetici, torna a esserci particolarmente gradito, e con la sua impostazione scenotecnica figurativa inevitabilmente un po' macchinosa.
La sfida di chi rimette mano ad Aida 1913 sta anche in questo: provare a rendere fluido il racconto a prescindere dai cambi di scena, rendere scomponibile e ricomponibile come un pratico Lego l'immaginario esotico di Fagiuoli, nutrito di dotte letture e vicino alle acquisizioni scientifiche dell'epoca ma anche indissolubilmente legato alla tradizione delle rappresentazioni operistiche italiane dell'Ottocento.
Al suo primo ritorno dopo una lunga pausa, l'anno scorso, da questo punto di vista lo spettacolo aveva mostrato qualche pesantezza. Era il prezzo inevitabile da pagare per rendere vivo un gioiello che al fascino di Verdi unisce quello del suo proprio essere antico? Non necessariamente. Quest'anno Aida 1913 scorre meglio. Ovviamente non come le Aide a scena fissa viste in un recente passato, che consentono addirittura un solo intervallo, ma con un indirizzo drammaturgico di fluidità che nemmeno le inevitabile pause incrinano. Del resto, chi ha assistito alle prove racconta di un Gianfranco de Bosio, l'ottantacinquenne regista veronese artefice fin dagli anni Ottanta di questo spettacolo, munito di cronometro per misurare i tempi degli intervalli, sempre sul palco a guidare le operazioni durante le pause, carico di un'ammirevole energia.
Per uno spettacolo di simile monumentalità, non è male davvero. Che poi, a guardar bene, la monumentalità è più dello spazio, dell'anfiteatro, che questo allestimento esalta come nessun altro. Di “costruito" ci sono i due obelischi con sfinge, a boccascena; il portale sul fondo, che del resto incornicia quello originale, le famose otto colonne dipinte e sgargianti, che sono diventate semoventi e si possono modulare con geometrie variabili e in luoghi diversi dell'ampia scena. Per il resto, gradinate nude, talvolta popolate di figuranti; quando serve grandi masse in movimento, che l'abile de Bosio sa giostrare con straordinaria fluidità, senza mai dare l'idea della folla indistinta. Soprattutto, vivida e determinante la sensazione che il decorativo egizio, l'archeologia dei faraoni (sottolineata dai costumi, figurini d'epoca godibilissimi), diventi una sorta di favolistico “prolungamento" dell'archeologia dei romani: come se dalle antiche pietre uscisse una storia per immagini, così potente da rendere naturali anche le palme e i papiri del terzo atto. Ma in fondo, se possiamo credere di avere un baobab nel giardinetto dietro casa, dentro all'Arena, fra 14 mila spettatori, non è difficile credere che quello sia vero Egitto, come voleva Verdi.
Musicalmente, quella ieri sera al debutto è un'Aida 1913 di notevole pregio vocale, con in più la sicurezza della bacchetta di Daniel Oren, espertissimo dell'opera e dell'Arena, sempre accattivante con i suoi tempi mobilissimi, i suoi accesi contrasti dinamici, la vibrante forza passionale, il gusto del roboante in esatta corrispondenza con quanto Verdi concedeva, la precisione delle sfumature quando il musicista le cesella (atto terzo e quarto, su tutti), il calore della passione e la forza del dramma.
Nel ruolo del titolo, Daniela Dessì trova un'impeccabile misura fra il lirico e il drammatico, accendendo la temperatura emotiva con la qualità di una linea di canto pensosa e spesso interiorizzata, eppure splendidamente espressiva. Al suo fianco, Radames è un Fabio Armiliato che trova efficacemente la strada dell'eroismo sentimentale, più che guerriero, di cui in fondo il personaggio si nutre. E non a caso, il grande duetto con Aida del terzo atto è momento davvero palpitante di melodramma puro. Unico reduce del cast dell'anno scorso, Ambrogio Maestri dà ad Amonasro nobiltà sprezzante con vocalità corposa e di grande autorevolezza. mentre Tichina Vaughn disegna un'Amneris di minore incisività, non particolarmente coinvolgente né per colore vocale né per tagliente drammaticità. A volte ruvido ma efficace il Ramfis di Giorgio Surian, non sempre ben timbrato il re di Carlo Striuli, piuttosto flebile il messaggero di Angelo Casertano. Discretamente concentrato il coro di Marco Faelli, con risultati apprezzabili specie nella scena del trionfo. Come sempre applauditissime le danze, con la prima ballerina ospite Myrna Kamara in grande evidenza.
Spettattori probabilmente sopra quota 10 mila, ma Arena lontana dal tutto esasurito in una serata particolarmente rigida. Entusiastiche per tutti le accoglienze. Sedici le repliche in calendario, a partire da giovedì prossimo."


Cesare Galla, L' Arena del 21 giugno 2009


http://www.larena.it/stories/Cultura%20&%20Spettacoli/63426__aida_1913_tutto_il_fascino_del_melodramma_puro/

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